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Immagine da topnegozi.it |
Qualcosa che non va – Alex Coman
La bambina mi fissa. La videocamera mi fissa.
Lui no.
Vedo solo la sua nuca e i suoi capelli. Mi alzo e lo osservo per
intero: i pantaloni abbassati fino alle ginocchia, culo all'aria.
Credo che stia piangendo, non so se per il dolore o per la vergogna.
Mi giro verso la bambina e sento che la domanda inizia a insinuarsi
tra i miei pensieri. Cosa c'è che non va in me? Me lo chiedo ogni
volta, ogni santa volta, quando vedo, sento su di me il peso, la
paura, il terrore degli occhi sgranati e lucidi. Come quelli di
questa bambina, raggomitolata nell'angolo del garage, braccia che
circondano le ginocchia, incapace di decidere se ringraziarmi o avere
paura di me.
Mi faccio sempre troppo tardi la domanda. Cosa c'è che non va in me?
Mi accorgo sempre troppo tardi dell'immensità di quegli occhi,
enormi, giganteschi, come se ogni volta la vittima volesse allargare
il suo campo visivo, come se volesse zoomare la scena: sono sicuro
che tutti hanno provato almeno un po' di soddisfazione mista al
sollievo, quando mi hanno visto all'opera.
E poi c'è il terrore. Quello c'è sempre.
Guardo la bambina nel suo angolo: oh, sì, il terrore c'è. Ogni
parte del suo piccolo corpo tremante mi comunica terrore. E non mi
stancherò mai di ripetere questa termine, terrore, perché è
l'unica parola stampata negli occhi dei bambini, di tutti i bambini
in casi simili – sempre che ce ne siano, di casi simili.
Perché non scappano mai via? Perché continuano a starmi accanto,
mentre sono all'opera? Il terrore. L'unica risposta è che sono
incapaci di muoversi a causa del terrore. Forse dovrei accompagnare
le vittime lontano dal posto in cui eseguo i miei istinti, ma non lo
faccio mai. Forse voglio solo lasciare loro la scelta di rimanere a
guardare o di andarsene.
Attraverso parte del garage e prendo la videocamera. Mi avvicino a
lei. «Come si chiama?» le chiedo, ancora con l'affanno in bocca per
la mia prestazione, indicando con una mano alle mie spalle.
Lei si stringe ancora di più le ginocchia contro il petto; la
videocamera riprende tutto. Mi osserva; il labbro inferiore che si
apre e si chiude in maniera nevrotica, senza riuscire a emettere
alcun suono.
«Come si chiama?» ripeto.
Sposta lievemente lo sguardo dietro di me, oltre a me, per guardare
lui, come se ne dovesse
ricordare il nome. «Rusoti.» Non più di un sussurro.
La guardo attraverso il display della camera. «Il nome completo.»
I pixel che disegnano la bocca cambiano colore ripetutamente: il
labbro le trema ancora. «Gior...» Prende una boccata d'aria.
«Giorgio Rusoti.»
Mi giro verso il signor Rusoti e lo riprendo: sta ancora con la
pancia contro il pavimento, il culo all'aria, la schiena ha smesso di
sussultare. Forse non piange più. Ritorno alla bambina. Le sorrido:
non servirà a niente, lo so, ma non posso farne a meno. La voglio
incoraggiare. «Stai andando benissimo.»
Lei sussulta. Non so se per quello che ho appena detto o per il
sorriso.
Torno serio. «Quante volte ti ha fatto quello che ho fatto a lui?»
«Io... non... io non lo so.» Scoppia a piangere.
Mi avvicino ancora di più e come risultato ho la sua risposta:
«Molte volte.» Piange. Piange e trema con tutto il corpo. Anche il
labbro. «Moltissime volte.»
È il terrore che la fa collaborare, ma va bene così. Non posso fare
molto per quello che sta provando. «Quanti anni hai?» le chiedo.
«Tu eri d'accordo con quello che ti ha fatto il signor Giorgio
Rusoti?»
Piange. Scuote la testa. Trema. Scuota la testa. No, come potrebbe
essere d'accordo di fare sesso con un signor Giorgio Rusoti? Non
risponde alla domanda dell'età.
«Okay.» Finisco la registrazione e chiudo la videocamera. «Abbiamo
finito.» Levo la memoria esterna e allungo il braccio verso la
bambina. «Tieni.»
Lei mi guarda perplessa.
Lancio il piccolo oggetto nel suo grembo. «Mostrala agli uomini che
arriveranno.»
Non fa obbiezioni.
Prendo il cellulare, faccio il 112. Mi risponde una voce al primo
squillo. Dico subito l'indirizzo del garage, senza presentarmi.
«Cosa c'è che non va?» mi chiede la voce.
Non riesco a non sorridere. Io. Sono io che non vado. Sono io che ho
qualcosa che non va. Lancio anche il telefono e anche questo cade nel
grembo della bambina. «Chiedi aiuto.» le dico. «Io devo andare.»
Mi giro e mi avvicino al signor Giorgio Rusoti. Lo guardo e gli tiro
un calcio sulle costole. È vivo, ovvio, ma il suo grido di dolore me
lo conferma ulteriormente.
Esco dal garage e vado via.
Mi serve un'altra memoria esterna per la videocamera.
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