Quindi, per chi ha la pazienza di stare a leggere, ecco a voi:
Sabato
1° gennaio 2011
Bianco, bianco e sfumature di bianco. Eppure la neve non
c'era. L'atmosfera intorno a lui era sfocata, annebbiata... poco
trasparente. Lo avvolse un dubbio. “Può l'aria essere così
densa?” Come poteva respirare qualcosa di opaco? Era molto
incerto sulla risposta; non riusciva a vedere o a sentire tutti i
dettagli della realtà circostante. Ogni suo movimento sembrava
durare un'eternità... tutto così lento, così irreale.
Sentiva sulla pelle centinaia di aghi che pungevano
dolcemente, quasi volessero scherzare e burlarsi di lui. Non era uno
stupido; sapeva che non erano aghi veri e propri. Ma allora cos'era
quella sensazione? “Ah, è il freddo.”
si disse. La temperatura là fuori non era molto elevata, anzi,
appena qualche grado sopra lo zero.
Già questo pensiero
gli fece confondere le idee. “Non dovrebbe essere un
paese caldo, questo?” pensò.
“Con un clima mediterraneo?” La
mente lo portò quindi ai pochi giorni in cui era presente a scuola,
cercando di ricordare cosa volesse dire clima mediterraneo.
Era quasi sicuro che non ci dovesse essere il freddo. Eppure c'era.
Già. Ma perché? Forse ricordava... mmm... male.
La sua mente confusa e affumicata allontanò quei
pensieri per il subentro di altri. Un voltura di idee lo fece
guardare intorno per qualche istante. I problemi del freddo e del
caldo erano spariti così come erano apparsi, senza un buon pretesto,
senza motivo. La questione ora era un'altra: dove si trovava?
Riusciva a scorgere un cancello, una recinzione.
Quello che aveva davanti doveva per forza essere un
cortile, o un piccolo giardino. Piccolo... Minuscolo.
Ultimamente, i suoi sedici anni di vita lo avevano
portato a pensare all'immensità dell'universo e al suo meccanismo.
Naturalmente, non capiva a fondo tutto quanto neanche con la mente
lucida, tanto meno con il cervello annebbiato, fatto e ubriaco allo
stesso tempo. L'unica cosa sensata che ora aveva in testa era solo
una: quel giardino era decisamente piccolo rispetto all'intero
universo. Come la punteggiatura in una frase. A volte non ci metteva
nemmeno la punteggiatura in una frase e questo rendeva l'idea della
piccolezza di quel cortile.
Il cancello blu lo invitò a entrare, mentre ai margini
dell'area i vasi, pieni di terra e senza fiori, intonavano un
Bentornato.
Entrò.
Edoardo Pellegrini stava dunque rincasando dopo una
mega-festa di capodanno, accompagnata da fumo, farmaci magici e
alcool di tutti i tipi possibili. Grazie a pochi grammi d'erba che
avevano fatto da esca, era riuscito a portare ragazze più grandi
alla festa. Con quale di queste si era divertito? Non se lo
ricordava.
Ora la nebbia intorno a lui sembrava penetrargli nella
testa e i momenti della notte prima tornavano a tratti. Doveva
smetterla con tutta quella roba. Si era detto che l'ultimo dell'anno
sarebbe stata l'ultima volta e avrebbe fatto il possibile per
mantenere la promessa a se stesso. Avrebbe avuto molto più controllo
su se stesso senza tutte quelle sostanze. Autocontrollo. Cosa che in
quel momento non possedeva.
Un'immagine a tratti gli penetrò la mente, facendogli
ricordare un momento in particolare della festa. Forse reale, forse
irreale. Ricordava di essere stato in cima al mondo – in realtà
solo sopra un tavolino – e di aver donato a tutto il suo popolo il
suo calore – ovvero la maglietta che aveva ancora addosso. L'aveva
solo strappata, perciò, il popolo aveva
preso solo una parte di quel calore. Durante tutta questa fantasia,
aveva strillato più volte, forse in un disperato tentativo di
cantare: Salite tutti quanti, andiamo sempre più su...
Ora stava cercando di
entrare in casa senza farsi sentire dalla madre. Elena De Luca era
una donna un poco irascibile e non si voleva far vedere in quello
stato da lei, imbottito di fumo, alcool e vari farmaci con effetti
collaterali spassosi.
Per
ora l'operazione
stava procedendo bene. Si trovava ancora davanti all'entrata,
impalato nel cortile, ma date le circostanze, poteva ammettere di
essere a un buon punto.
Doveva entrare. Quindi...
“Andiamo sempre più su...”
Doveva
oltrepassare quella porta, perciò servivano... “Le
chiavi.”
Mise le mani nelle tasche dei pantaloni e la cosa gli provocò un
certo piacere. “Gli
aghi non ci sono più.” pensò
sorridente, sentendo le dita riscaldarsi. Si scordò per un momento
della sua missione e si concentrò sulla piacevole sensazione che
quel calore gli dava. Ritirò fuori le mani e gli aghi amichevoli
iniziarono a pungergli dolcemente la pelle. Poi di nuovo dentro la
tasca. Di nuovo il caldo. Poi fuori. Poi di nuovo dentro. Poi di
nuovo fuori...
Ci giocò per un paio di secondi, dopo di che ricordò
l'operazione. Doveva entrare senza farsi sentire dalla madre. Doveva
cercare le chiavi.
Bene.
Dentro
le tasche dei pantaloni non c'erano e di questo ne era sicuro. Aveva
controllato più volte. Sperò di non aver donato al popolo anche le
chiavi di casa. “Sempre
più su...” Sorrise
a quel ricordo.
Ci mise più di due minuti a ritrovare la chiave giusta.
Dopo aver cercato anche nelle altre tasche inutilmente, si dimostrò
furbo e rimise le mani in quelle dei pantaloni un'altra volta.
Sicuramente la chiave non avrebbe sospettato un altro controllo nelle
tasche dei jeans, così si era nascosta lì dentro. Ma lui era furbo,
aveva capito la criminale mente della chiave. La prese e finalmente
aprì la porta, anche se non così in fretta come avrebbe voluto.
Entrò
in casa in punta di piedi, come aveva visto fare a Willy il Coyote
quando si avvicinava a Beep Beep. "Quel
Beep Beep è fico forte!"
si disse mentre cercava la sua camera da letto. Era sicuro che si
trovava da quelle parti. Quella casa sembrava più grande del solito.
Era un labirinto! Uno piccolo rispetto all'universo, ma grande
rispetto al cortile. Poi un labirinto sembra sempre grande...
perché... ci si perde dentro l'universo. O era dentro la casa? Ci si
perde...
"Ma dove
diavolo ho messo la porta?"
si chiese. Poi, un pensiero intelligente gli trapassò la mente. "Non
devo aprire quella dietro la quale c'è mamma!"
Si congratulò con se stesso per essere arrivato a quella conclusione
e si rimise a vagare per la casa, in cerca della sua stanza. Com'era
fatta quella maledetta porta? Gli venne ancora in mente Beep Beep che
riusciva sempre a sfuggire a Willy. Ora si sentiva proprio come
quello stupito coyote. E la porta era Beep Beep.
Guardandosi
meglio intorno, si rese conto di non aver ancora superato il
soggiorno. “Io
non sono un coyote.”
si disse con convinzione. Così, per dimostrare a se stesso di essere
più Beep Beep che Willy, si concentrò per un poco.
E poi la vide.
"Eccoti qui. Dov'eri sparita?" Aprì
la porta, soddisfatto di sé stesso.
Quando
entrò, il freddo di gennaio lo colpì di nuovo in pieno viso e gli
aghi amichevoli di prima iniziarono a innervosirsi. Lo pungevano con
più cattiveria ora, per la differenza di temperatura... Non
ricordava di aver lasciato la finestra aperta e così iniziò a
indagare: alberi privi di foglie torreggiavano su di lui e l'alba lo
guardava da lontano. Per istinto, iniziò a palpare il pavimento
sotto di lui, giusto per essere sicuri di non avere un precipizio
sotto i piedi come succedeva sempre a quello stupido coyote. "Non
ci posso credere!"
si meravigliò. "Sono
finito sul terrazzo."
Si guardò intorno con attenzione, o almeno, con quella
poca attenzione che riusciva a dare alle cose. Era proprio il
terrazzo. Come diavolo era finito lì fuori?
Anche quei pochi metri quadrati erano decorati con vasi
di fiori e anche questa volta a Edoardo sembrò che cantassero. Non
diede molta importanza a quei rametti secchi, ma provò a
concentrarsi. Quando cercò di rientrare in soggiorno, si guardò
attentamente i piedi per non inciampare e, soprattutto, per non fare
rumore. Passo dopo passo, la sua scarpa destra si fermò su una
mattonella in particolare.
Tic.
“Che cos'è
stato?” Levò
il piede dalla mattonella guardandosi intorno come un coniglio
spaventato. Forse il popolo voleva ancora più calore...
Tic.
Di nuovo quel rumore. Ma non era il popolo. Anche perché
la festa era finita da un pezzo.
Premette
di nuovo con il piede. Tic.
Che
cos'era, allora?
Il
ragazzo scoppiò a ridere. “La
mattonella mi parla.”
constatò. “I
fiori mi cantano e la mattonella mi parla!”
Erano anni che quella mattonella traballava, ma Edoardo
non si era mai chiesto perché e in quel preciso istante non si
ricordava nemmeno quel particolare.
Tic.
“Cosa dici?”
chiese mentalmente alla mattonella, dopo di che ci appoggiò di nuovo
il piede. Tic.
Di nuovo una risata. Tic.
Sempre più su... Tic... Vieni con me... Tic...
Sempre più su...
Quel duo tra lui e la mattonella non durò a lungo,
però. Un duo fa rumore e lui doveva evitarlo.
Tic...
«Shh!» ordinò questa volta a quel pezzo di pavimento.
«Sveglierai mia madre.»
Levò
il piede dalla mattonella, deciso a entrare in casa e cercare la sua
camera. Ma non fece neanche un passo che... tic.
«Stai zitta, mattonella.» protestò, mettendoci sopra
il piede ancora una volta, pensando di sistemarla.
Tic.
«Ho detto, zitta!» ripeté e levò la scarpa,
producendo di nuovo il rumore.
Tic.
«E va bene. L'hai voluta tu.» disse infine con rabbia
iniziando a dare tallonate alla mattonella. «Vediamo se farai ancora
rumore quando sarai rotta.» replicò ridendo.
Tic, tic, tic.
Più colpiva, più si sentiva il rumore.
«Te lo do io tic-tic.» strillava non più curandosi di
svegliare la madre.
Ora era guerra e in guerra e odio tutto è ammesso. O
era guerra e amore? Non importava, il bello era che ora poteva fare
rumore. Del resto stava in... odio. No, guerra. Stava in guerra.
Privo
della maggior parte della funzionalità del cervello com'era, Edoardo
decise di far
fuori
quella mattonella. In quel preciso istante. Si mise dunque a
martellare il pavimento del terrazzo con ogni cosa a sua
disposizione, prima con i piedi, poi con i vasi dei fiori, sempre
senza preoccuparsi troppo di svegliare la madre. Infine, uno dei vasi
si dimostrò all'altezza del compito, malgrado andò in frantumi, ed
Edoardo spaccò la mattonella.
«Ecco, ora voglio vedere se fai più tic-tic.» risse
il ragazzo, guardando vittorioso la mattonella.
Osservando con più attenzione però, Edoardo si rese
conto che tra i pezzi di cemento e porcellanato c'era... qualcosa.
«Che roba è?» si chiese, dimenticandosi della sua
nemesi, la mattonella ormai distrutta. Si accovacciò per vedere
meglio. «Ritagli di giornale?» domandò, senza rivolgersi a
nessuno.
Si immaginò già in prima pagina, accusato di aver
ucciso una mattonella. Ma non c'era lui su quei giornali. C'era
qualcun altro, che però aveva il suo stesso cognome. Pellegrini.
“Figo.” pensò.
Svegliata dal rumore che suo figlio aveva causato, Elena
De Luca scese dal letto spaventata. Il primo pensiero che gli passò
per la mente fu che un ladro si fosse introdotto dentro casa, anche
se non capiva come qualcuno potesse andare in giro a rubare il primo
dell'anno.
Per fortuna però, era solo Edoardo che aveva distrutto
i suoi vasi sul terrazzo.
Non aveva avuto il tempo di lamentarsi per i suoi
bellissimi fiori, più morti che vivi a causa dell'inverno, che notò
subito qualcos'altro. Il figlio aveva trovato un quaderno, uno di
quelli costosi all'apparenza, sulla quale copertina si vedeva un
elegante titolo.
A Edoardo Pellegrini, il figlio
che non ho mai conosciuto
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